Oggi, 8 marzo 2024, Festa della Donna, vogliamo parlare di Victim blaming o, in italiano, colpevolizzazione della vittima, fenomeno mediante il quale l’innocente subisce la condanna morale della massa.
Fissare un corpo senza vita, osservarlo per scrutarne i segni di violenza, di soccombenza, decidere di non voltarsi verso quell’ uomo che ne è stato la causa.
Preferire non distogliere lo sguardo dal volto della donna uccisa, per commemorarne le sue colpe e non la sua morte.
Espressioni poco metaforiche e per lo più realistiche che raffigurano quanto segue agli episodi di femminicidio.
Giudicanti di vite spezzate e ispettori di colpe di donne defunte, questo è il ruolo che spesso la popolazione del ventunesimo secolo assume e tristemente preserva nei confronti delle vittime di femminicidio.
L’immagine cruenta di coloro i quali poco distanti dalla salma con i propri sguardi giudicanti spogliano la donna dalla veste di vittima, professandola autrice del suo destino, non differisce molto dallo scenario di chi, lontano dal cadavere, apprendendo, narrando o sentenziando le azioni dell’omicida, descrive la morte cagionata dall’uomo come infausta conseguenza degli errori commessi, degli incauti eccessi e delle sprovvedute omissioni della donna defunta.
Questa indagine del movente che giustifica l’autore e colpevolizza la vittima ha un nome: victim blaming.
Il victim blaming o, in italiano, colpevolizzazione della vittima, rappresenta l’ossimoro dell’ideologia sociale, perché è il fenomeno mediante cui l’innocente subisce la condanna morale della massa.
Un sistema inquisitorio che impetuosamente subentra all’atto dell’apprendimento della notizia di femminicidio.
Un catalogo di domande segue la morte della donna: Perché ha accettato quell’invito? Perché non è scappata? Perché ha denunciato con così tanto ritardo? era una buona moglie? Era una donna presente? Era una donna fedele?
Interrogativi da cui traspare l’inversione del criterio d’imputazione “sociale”, si scruta retrospettivamente il vissuto, il lavoro, lo stato civile, il comportamento della donna prestando quasi un’attenzione residuale verso la vita dell’assassino.
Si assiste alla scelta non casuale di ricostruire i tratti di colei che ha subito la volontà omicida dell’uomo, per esaminare quegli eventi che l’hanno portata ad essere vittima, per ricercare fatti e circostanze che avvalorino la malsana credenza popolare secondo cui la violenza subita in qualche modo “se l’è cercata” in un certo senso “l’ha meritata”.
Il rintraccio delle “ragioni che abbiano cagionato la morte” si insinua e rapidamente si espande tra gli spettatori della tragedia che inconsapevolmente divengono i nuovi assassini.
Le critiche, le insinuazioni, le contestazioni delle modalità relazionali di una donna uccisa prestano il fianco ad un’ulteriore forma di aggressione, postuma ma pur sempre latente, il giudizio di colpe inesistenti, perché nessun atteggiamento, scelta o condotta potrebbe mai fungere da giustificazione ad un atto privo di legittimazione come la morte.
Un meccanismo di analisi e valutazione che segna e scalfisce giorno dopo giorno non solo la vita rubata della vittima di femminicidio ma che incombe e persiste anche su coloro i quali sono costretti a convivere con il dolore della perdita di una figlia, una madre, una sorella, un’amica.
Il peso di un insensato giudizio colpevolizzante a cui i familiari assistono e che tristemente subiscono.
Il victim blaming è un fenomeno che trascende i confini, lo status sociale, economico e culturale ha un impatto su donne e ragazze in tutte le società, purtroppo costituisce un preconcetto insito nella mente di molti che solo un’adeguata istruzione e consapevolizzazione degli eventi che lo costituiscono può abbattere il paradigma di una morte causata dalla vittima e non dal carnefice.
Solo una sensibilizzazione collettiva può far comprendere che una donna può scegliere liberamente come gestire ogni ambito della sua vita senza che nessun frammento del suo vissuto possa mai configurarsi come lo sbaglio che ha scaturito la volontà omicida dell’uomo.
La formulazione dei giudizi colpevolizzanti necessita di essere sottratta dall’alveo delle pratiche di comune attuazione.
Per favorire il disincentivo di questa costante, il primo obiettivo a cui ambire consiste nella diffusione della conoscenza dei bias cognitivi che determinano il fenomeno del victim blaming.
Bias cognitivi
Cercando inconsapevolmente di difenderci dalla violenza perpetrata da altri e dal timore di esserne vittime, spesso l’uomo interiorizza e naturalizza pattern comportamentali di cui ne diventa inconscio promotore diretto.
Si instaura quindi un meccanismo paradossale in cui il tentativo di allontanarci dalla violenza condiziona silenziosamente le nostre opinioni e indirizza i nostri pensieri verso strutture mentali che influiscono sulle scelte e sulle preferenze di ognuno.
Paura e violenza, infatti, si alimentano a vicenda in un circolo perverso in cui entrambe sono contemporaneamente causa ed effetto l’una dell’altra.
Se da un lato la violenza provoca paura, dall’altro la paura ci porta a compiere violenza (narrazione colpevolizzante) nei confronti di colei che è già è stata vittima di altri: è questo il processo che si crea nella dinamica del victim blaming.
Agli inizi degli anni ’70, il sociologo francese Pierre Bourdieu elabora una teoria volta all’individuazione e diversificazione delle tipologie di violenza a cui l’individuo è sottoposto.
Secondo lo studioso, una delle forme di violenza fortemente celata nella realtà quotidiana ma intrinsecamente presente nelle vite di ognuno consiste nella “violenza simbolica”.
Un violenza “dolce e quasi invisibile” che non toccando un solo aspetto della nostra esistenza, ma scontrandosi con la complessiva percezione del nostro modo di vivere, velatamente dirotta scelte e idee degli individui.
La violenza simbolica è, dunque, la subdola imposizione di una visione del mondo determinata e tipizzata, una cristallizzazione di ciò che dovrebbe essere, senza alterazioni.
Ma qual è il nostro ruolo in questo contesto? Non solo siamo perennemente soggetti a questo tipo di violenza ma, quando, per il solo scopo di sentirci al sicuro di fronte a situazioni difficili, ci affidiamo a schemi comportamentali e preconcetti privi di qualsiasi fondamento razionale.
L’individuo tenta di tutelare la concezione ideologica del mondo come luogo sicuro e moralmente giusto dove ognuno ha quello che si merita. La considerazione che disgrazie o violenze possano accadere anche a coloro che non abbiano fatto nulla di male, risulta di difficile accettazione poiché determinerebbe nell’uomo una passiva consapevolizzazione che le sofferenze possano colpire i destini di tutti senza esclusione e senza ragione.
Colui il quale ha affrontato una violenza viene, quindi, condannato, colpevolizzato, ritenuto parzialmente o interamente responsabile di ciò che gli è accaduto, in quanto la disgrazia o l’atto violento vengono considerati come semplici conseguenze delle condotte poste in essere.
Lo psicologo sociale Melvin J. Lerner si concentra su questo fenomeno avanzando l’interessante ipotesi del mondo giusto. Secondo questa teoria, il mondo sarebbe visto come un luogo che ricompensa o punisce in base al comportamento che il singolo assume.
Nel tentativo di avvalorare questa ideologica convinzione e considerare ognuno padrone e artefice del suo destino, non possiamo che credere che le avversità a cui le persone sono sottoposte siano state in un certo senso dettate dal loro atteggiamento. Diventa facile, quindi, considerare le persone
- povere perché pigre;
- migranti perché codarde;
- vittime di femminicidio perché provocatrici.
Colpevolizzare la vittima per quanto le accade ci sottrae dall’incertezza di vivere in un mondo non giusto e poco equo, ci mette al riparo dalla possibilità che eventi negativi possano essere fuori dal nostro controllo, pensare che gli eventi negativi derivino direttamente dalle nostre azioni consente all’uomo di immaginare di poterli prevenire ed evitare.
Un altro esponente della psicologia sociale a cui si ricorre per identificare i tratti di questa dilaniante propensione colpevolizzante della mente umana è Fritz Heider, principale studioso e sostenitore della teoria delle attribuzioni.
Secondo l’esperto, lo scopo perennemente e inconsciamente perseguito dal genere umano si sostanzia nella volontà di trovare una spiegazione ad ogni accadimento per avere riparo nell’illusoria convinzione dell’esistenza di un mondo significativo e coerente.
L’identificazione delle ragioni costituenti il movente dell’agire del singolo (attribuzioni di causalità) si sostanzia in una duplice categorizzazione:
- fattori interni (tratti della personalità, abilità individuale);
- fattori esterni (fattispecie situazionali e ambientali: a titolo esemplificativo, fortuna sfortuna).
Lo sviluppo degli studi in relazione alla predisposizione sociale di individuazione della causalità dei comportamenti umani ha rinvenuto una costante tendenza da parte della società ad incorrere in una commissione di errori cognitivi.
La visione degli eventi, infatti, appare distorta dai bisogni inconsciamente presenti in ognuno di noi, i quali ci portano a fare attribuzioni di cause errate.
L’individuo, per tale ragione, assume una percezione diversificata nell’elaborazione del meccanismo di attribuzione delle ragioni determinanti gli avvenimenti, che varia a seconda se il soggetto che subisce i fatti sia lui stesso o un estraneo (errore di attribuzione fondamentale).
In altre parole, se l’evento negativo tange la vita di un’altra persona, l’individuo tenderà a rinvenire la causa di tale disgrazia in elementi attinenti alla sfera personale dello stesso, come personalità comportamenti e scelte di vita, ritenendo che l’avvenimento sarebbe nient’altro che la mera conseguenza del suo agire.
Nello specifico, se l’estraneo avesse avuto intenzione di evitare l’evento avrebbe potuto, in quanto oggetto del suo controllo.
Di converso, se il fatto nefasto colpisce la sua di vita e non quella di altri, l’individuo giudicherà l’avvenimento come imprevedibile perché sussumibile in circostanze sulle quali non potrebbe esercitare alcun potere, come la sfortuna o l’irragionevole violenza di uno sconosciuto, e così, di fatto, attua un processo di deresponsabilizzazione.
In sintesi: “Quando gli altri subiscono qualcosa di dannoso, la colpa è la loro, invece, quando l’evento nocivo tange me, la colpa non è mia ma della situazione circostante”
In tali casi, quindi, le persone ancora una volta saranno portate ad accusare la vittima di aver causato la violenza che al contrario non avrebbe preso forma se si fossero adottate condotte differenti.
Il victim blaming esiste perché funziona, rappresenta il meccanismo mentale a cui ricorriamo per metterci al riparo dall’imprevedibilità delle evenienze della vita.
L’analisi della tendente estremizzazione della capacità di poter prevenire quanto accade nella realtà, ha condotto gli studiosi a delineare un’ulteriore teoria che spiega le congetture colpevolizzanti della mente umana (teoria dell’invulnerabilità).
Incolpare la vittima rappresenta la modalità mediante la quale il singolo tenta di preservare la propria convinzione di invulnerabilità.
La colpevolizzazione nasce dalla necessità di ridimensionare ed annullare la paura dell’impotenza rispetto alla determinazione del nostro destino.
Per evitare di affrontare il timore di essere vulnerabili supponiamo che la vittima abbia la capacità di prevenire ciò che le è accaduto.
Tale assunto conduce ad un pensiero generalizzato, ossia, dal momento che il soggetto passivo della violenza per sua colpa non abbia previsto l’evento, siamo legittimati a riconoscerci come più saggi, più forti, perché quello che è successo a loro non sarebbe mai accaduto a noi.
Il senso di potere fittizio dato da questa supposta invulnerabilità personale ci regala una sorta di controllo sulle nostre vite, rendendoci osservatori arroganti e giudicanti e facendoci sentire in uno status di superiorità rispetto alla vittima.
In sostanza, le vittime sono un promemoria della nostra vulnerabilità.
Nonostante la realtà fattuale quotidianamente smentisca tutte le convinzioni appena elencate, si assiste ad una costante reiterazione di tali pensieri perché efficaci e tranquillizzanti.
Il victim blaming, infatti, si configura tra le vie più semplici e dirette per affrontare l’ingiustizia della vita da sempre di difficile comprensione.
Victim blaming e i media
Il linguaggio dei media ha un ruolo fondamentale nella costruzione della realtà sociale.
Le espressioni utilizzate, gli appellativi attribuiti e i concetti espressi fungono da dispositivi di comunicazione la cui influenza è cosi pregnante che oltrepassa il limite della funzione di mera descrizione oggettiva dei fatti, in qualche modo le parole scelte sembrano rideterminare l’illustrazione degli avvenimenti conferendogli nuova forma.
La narrazione mediatica del femminicidio, concorrere ad innescare, legittimare e perpetuare la distorsione della percezione identificativa dei soggetti coinvolti.
Si assiste ad una preminente tendenza ad avvalorare moventi, attenuanti, contesti personali o lavorativi dell’assassino piuttosto che circoscrivere l’attenzione sulla violenza omicida inferta alla donna.
Il meccanismo che attenua, nelle locuzioni adottate, la responsabilità di chi – ben consapevolmente e in piena autodeterminazione- ha deciso di uccidere, concorre con un metodologia narrante in cui la morte della donna viene ricondotta ad errori, scelte ed omissioni della stessa.
Stampa, televisioni, radio e web fanno da megafono di risonanza alla colpevolizzazione della vittima.
Il nodo è la “definizione delle situazioni”.
Fra noi e la verità ci sono i media a fare da mezzo di collegamento (come spiegato dagli esperti Taylor and Sorenson); questi, però, più che rappresentare un filtro di propagazione neutrale delle notizie di femminicidio, si qualificano come riflesso di pregiudizi e stereotipi.
La convinzione stereotipata di una donna defunta perché responsabile delle cause determinanti la sua morte, influenza coloro i quali producono i contenuti di futura pubblicazione, pregiudizio questo che a sua volta trasmigra nel racconto dei fatti e si traduce in un’estensione legittimante del victim blaming tra i lettori, i quali internalizzano una rappresentazione “deviata” del fenomeno del femminicidio.
Un circolo vizioso che deteriora il progresso sociale in materia, in quanto il processo di colpevolizzazione della vittima rimane inalterato e il ridimensionamento della valenza della vera radice del problema (l’abuso perpetrato dagli uomini sulle donne) viene valorizzato.
Vi è, quindi, la perpetrazione di un deficit comunicativo estremamente dannoso.
Nel saggio del 2016 intitolato “Smoke and Mirrors: U.K. Newspaper Representations of Intimate Partner Domestic Violence”, infatti, le autrici Michele Lloyd e Shula Ramon si soffermano sulla fallace rappresentazione del femminicidio dei nostri giorni.
Il testo denuncia il ricorso abituale al processo mediatico (Framing) del victim blaming, tramite il quale l’interpretazione e la comprensione da parte degli interlocutori delle azioni omicide vengono dirottate a secondo delle modalità con cui la descrizione dei fatti viene presentata. In base al frame o al “taglio” dato al contenuto, la percezione della narrazione diviene pertanto diversa da quella che il pubblico avrebbe adottato in assenza della “differente cornice” apposta.
Sulla traccia delle colleghe britanniche anche le sociologhe Elisa Giomi e Sveva Magaraggia nel libro Relazioni Brutali: Genere e violenza nella cultura mediale prendono in esame la rappresentazione della violenza, ribadendo la nocività dell’influenza dei media sulla mentalità comune in materia.
La battaglia sul linguaggio
L’esposizione degli episodi di femminicidio da parte dei media detiene un ruolo fondamentale nella formazione del discorso pubblico e del comune sentire, ed è proprio in questo contesto che il victim blaming mediante le sue pratiche di attuazione, ossia, l’assoluzione del colpevole e la denigrazione della vittima, sferra nuovi colpi sui corpi delle donne uccise e provoca ulteriori sofferenze nelle vite dei parenti che ne piangono la morte.
Siamo spettatori passivi di racconti indulgenti, che tentano di suscitare empatia con l’autore della violenza ed avvalorare un processo di umanizzazione dello stesso.
Assistiamo, da un lato, all’enfatizzazione dei tratti pregevoli dell’omicida e, dall’altro, ad una concomitante retrocessione dei profili di violenza, crudeltà e sottomissione dell’uomo che, di fatto, nascondono la realtà e la confondono di proposito.
L’assassino esiste nella misura in cui viene citato: un ragazzo devoto alla famiglia, tutto casa e lavoro, un gigante buono, un marito modello, una brava persona.
Appellativi che disegnano l’immagine di uomini pacati, amorevoli e sensibili d’animo la cui azione omicida sembra essere la conseguenza nefasta di comportamenti e scelte della donna che hanno provocato una destabilizzazione interna tale da alterare la quotidianità del loro essere.
Dalla descrizione della personalità salda, ben definita e tendente all’aulico dell’assassino, la narrazione mediatica della morte cagionata, in alcuni casi, passa ad essere, invece, la risultanza di un raptus dell’uomo.
Una locuzione, quella di raptus, che assume le vesti dell’ennesima cornice giustificatoria a favore dell’omicida.
Una raffigurazione di una violenza che viene ridottata ad una atto “capitato e non agìto”
Un ricorso ad una terminologia sintomatica che implica e sottende una colpevolizzazione della vittima in quanto la stessa avrebbe potuto prefigurarsi i motivi della “perdita di controllo”, ed evitare di compiere le scelte che avrebbero indotto l’uomo a quell’impulso feroce.
Le cronache dei femminicidi, infatti, spesso associano l’incontrollata volontà di uccidere dell’uomo ad atteggiamenti e comportamenti relazionali della donna su cui gravano le ragioni dell’innesco di un’inquieta gelosia e di un amore travagliato.
Una connessione legittimante, che mostra il femminicidio come una sorta di violenza romanticizzata.
Un codice narrativo abituale in cui la morte prende le forme di una ripercussione di un amore smisurato verso colei che si è “permessa” di non ricambiare il sentimento.
Vi è una consapevole omissione delle attribuzioni descrittive del fenomeno del femminicidio, il quale (al contrario di ciò che accade) dovrebbe essere raffigurato solamente come il tragico apice del potere e del possesso dell’uomo verso la donna.
Casi, questi, in cui l’instaurazione del meccanismo colpevolizzante perpetrato nei riguardi della defunta diviene di facile percezione, in quanto vi è una sottesa condanna verso le scelte amorose di lei, la cui assenza ne avrebbe giovato e salvato la vita.
La rappresentazione mediatica del femminicidio, quindi, appare essere il manifesto di una correlazione deleteria di causa-effetto.
La rivendicazione delle libertà personali da parte di colei che ha subito la morte, sembrano costituire il presupposto per la convalida popolare della “chiamata di correo” nei confronti della vittima.
Si avanza la pretesa di massa di prestabilire e pianificare le condotte che una donna deve assumere, in quanto la violazione della tipizzazione comportamentale da parte della stessa comporta l’implacabile attribuzione alla donna stessa di un catalogo di colpe il cui epilogo confluisce nel decesso patito per mano dell’uomo.
Lo stile di vita, le aspirazioni, la fedeltà coniugale, l’abbigliamento, i doveri di moglie, la cura della casa, le amicizie, divengono criteri e parametri per misurare il grado di colpevolezza della donna.
Il rinvenimento, infatti, di “opzioni di vita” difformi rispetto ai canoni d’imposizione sociale richiesti per “rientrare” nell’immaginario collettivo di buona moglie, madre o compagna insorgono come accuse senza scusanti.
In sostanza, la vittima che decide di avvalersi della facoltà di poter agire liberamente, svincolandosi dalle obbligatorietà del ruolo che la società le attribuisce, deve portare il peso di essere l’idealtipo di colpevole del suo destino perché la morte cagionata dall’uomo in parte “se l’è cercata” in qualche modo “l’ha meritata”.
Un insieme di pregiudizi (questi elencati) che echeggiano con insistente reiterazione nelle cronache dei femminicidi, disattendendo uno dei principi fondanti della civiltà moderna riportato nell’articolo 17 della Convenzione di Istanbul.
La disposizione non lascia chiavi di lettura alternative, sancisce e chiarisce in maniera espressa la doverosità dell’impegno degli Stati firmatari di assicurare ed incoraggiare “il settore delle tecnologie dell’informazione, della comunicazione e dei mass media” ad effettuare operazioni di contrasto e prevenzione della violenza di genere precludendo ed eliminando la diffusione di pregiudizi, pratiche e stereotipi sul ruolo della donna nella società.
Bisogna, quindi, aspirare ad un’informazione corretta, completa ed esaustiva.
Un’esigenza che deve tramutarsi in una prerogativa, un’azione necessaria per rendere la comunicazione mediatica uno strumento di cultura che aiuti a sviluppare un senso critico verso un’ideologia anacronistica e stereotipata, per porre un freno a fenomeni come il victim blaming che rappresentano una sconfitta della parità di genere ed una lacerazione del rispetto e della dignità delle donne.
Victim blaming e le pronunce dei Tribunali
La sintomatologia del fenomeno del victim blaming la si rinviene anche nei luoghi dove la sola traccia di stereotipi pregiudizievoli non dovrebbe mai essere ravvisata: le aule di giustizia.
In alcuni casi, invece, il sentenziare la condotta delittuosa degli autori di femminicidio, sembra presentarsi come l’occasione mediante la quale organi giudicanti ed inquirenti possano ricorrere a repertori linguistici di natura colpevolizzante e moralizzatrice nei confronti della donna.
La facoltà dei giudici di esprimersi liberamente nella formulazione delle proprie decisioni – quale espressione della discrezionalità e dell’indipendenza degli stessi – deve necessariamente essere soggetta all’osservanza dell’obbligo normativo, deontologico e morale di tutela e custodia della dignità e dell’immagine della vittima.
Pur svolgendosi entro precisi requisiti formali, l’elaborazione delle disposizioni giudiziarie spesso espongono concetti ed opinioni da cui traspare una sorta di condiscendenza ed empatia verso l’autore della violenza ed una sottesa (ma pur sempre percepibile) colpevolizzazione della vittima.
Le valutazioni sugli assetti comportamentali della vittima, infatti, conferiscono al vissuto della donna la valenza di causa legittimante della volontà omicida dell’uomo.
Tale metodologia di elaborazione attua una violenza inferta “mediante motivazione”
Al riguardo, l’Università degli Studi della Tuscia in partnership con l’Associazione Differenza Donna Ong, ha condotto uno studio di ricerca sulla rappresentazione socio-culturale della violenza contro le donne in ambito giuridico.
Il lavoro, denominato progetto Step, porta alla luce passi di sentenze di femminicidio dove il linguaggio prescelto dall’organo giudicante appare il riflesso e la cristallizzazione del processo di colpevolizzazione della vittima insito nella realtà sociale dei nostri giorni.
Espressioni come:
“La moglie (…) non è decisa nelle sue scelte, manifesta amore e subito dopo disprezzo e questo fa «impazzire» il marito. È d’altronde credibile che la **** completamente ubriaca, contraddittoria e incoerente come sempre (…) abbia provocato **** mettendone in dubbio la sua determinazione e la sua capacità di dimostrarsi «uomo» e a dura prova il suo autocontrollo. La scena non ha testimoni ma è indiscutibile che i toni della discussione si siano molto accesi e che la donna, completamente ubriaca possa aver detto o fatto qualunque cosa (…) certamente l’impulso che ha portato **** a colpire la moglie con il coltello è scaturito da un sentimento molto forte ed improvviso, La donna lo ha illuso e disilluso [..]non ha semplicemente agito sotto la spinta della gelosia ma di un misto di rabbia e di disperazione, profonda delusione e risentimento (…) ha agito sotto la spinta di uno stato d’animo molto intenso, non pretestuoso, né umanamente del tutto incomprensibile”
“Va inoltre evidenziato che se è indiscutibile che in passato **** si sia reso responsabile di comportamenti violenti, in altre occasioni l’imputato, pur legittimamente risentito per il comportamento della moglie, ha dimostrato di voler dominare i propri scatti d’ira”
costituiscono una rappresentazione “formalizzata” dello stereotipo della deresponsabilizzazione della condotta violenta, in quanto dai costrutti semantici riportati, il team di analisi e ricerca rende manifesta l’azione di normalizzazione della reazione maschile (reazione a qualcosa che la donna ha fatto o non voleva fare) tramite l’inserimento dell’azione omicida dell’uomo entro una cornice di fatti descritti come comprensibili, accettabili, quasi legittimi.
L’inversione del processo di colpevolizzazione a danno della vittima, per quanto esuli dal procedimento di valutazione normativa e giudiziaria di configurazione o meno della responsabilità penale dell’autore, lede l’intangibilità della funzione istituzionale dell’organo giudicante come soggetto preposto alla tutela dell’uguaglianza di genere, la cui sentenza deve essere avulsa da rielaborazioni di concetti pregiudizievoli e stereotipati.
In materia, una recente pronuncia (27.5.2021) della Corte di Strasburgo palesa e condanna la perpetrazione del victim blaming nell’elaborazione delle motivazioni poste a sostegno delle sentenze.
Nello specifico, le vicende giudiziarie oggetto dell’attenzione della Corte, attengono ad un caso di violenza sessuale e non omicida; le argomentazioni adottate, però, costituiscono le fondamenta della prima denuncia istituzionale verso la propensione colpevolizzante e moralizzatrice dell’autorità giudicante nei confronti della vittima.
Il caso riguarda una sentenza della Corte d’Appello di Firenze del 2015 che assolse sette imputati accusati di uno stupro di gruppo avvenuto nella Fortezza da Basso nel 2008.
Nel luglio 2015 la procura generale non impugnò la sentenza assolutoria, divenendo così la stessa definitiva.
La difesa della giovane decise di presentare ricorso dinanzi la Corte europea dei diritti umani (Cedu) chiedendo a questa di esprimersi sul contenuto della pronuncia emessa in Appello la quale, pregna di stereotipi di genere, ri-vittimizzavano la ricorrente mediante un linguaggio di matrice colpevolizzante.
Un giudizio, quello sulle motivazioni, che la Corte di Strasburgo definisce “fuori contesto e deplorevole” ma soprattutto non “pertinente per vagliare la responsabilità penale degli accusati”.
I giudici europei qualificano “ingiustificato il riferimento alla biancheria intima che la ricorrente indossava la sera dei fatti, come i commenti sulla sua bisessualità, le sue relazioni sentimentali o i rapporti sessuali che aveva avuto prima dei fatti presi in esame” e “inappropriate le considerazioni fatte sull’attitudine ambivalente rispetto al sesso della ricorrente” così come il riferimento alla “vita non lineare” della donna.
La corte “considera che la lingua e gli argomenti utilizzati dalla Corte d’appello veicolino preconcetti sul ruolo della donna che esistono nella società e che possono ostacolare l’effettiva tutela dei diritti delle vittime di violenza contro le donne, nonostante un quadro legislativo soddisfacente”.
Per tali ragioni, la Corte europea dei diritti umani delibera che si sia perpetrata una violazione degli obblighi positivi in capo alle autorità nazionali scaturenti dall’articolo 8 Cedu (Diritto al rispetto della vita privata e familiare).
Nello specifico: “si ritiene che i diritti e gli interessi della ricorrente derivanti dall’art. 8 non sono stati adeguatamente tutelati in considerazione del contenuto della sentenza della Corte d’Appello di Firenze”.
Ne consegue che le autorità nazionali non hanno tutelato la ricorrente dalla vittimizzazione secondaria durante tutto il procedimento, di cui la redazione della sentenza è parte integrante.
La Corte europea dei diritti umani, quindi, ha condannato l’Italia per aver violato i diritti della ricorrente.
Proprio i procedimenti penali per casi simili, secondo i giudici europei, giocano un ruolo fondamentale nel superamento dei pregiudizi e per la risposta istituzionale contro le diseguaglianze di genere, motivo per cui è essenziale che le autorità giudiziarie evitino di riprodurre stereotipi sessisti nelle decisioni dei tribunali, esponendo le donne a una vittimizzazione secondaria.